venerdì 18 aprile 2014

NICOLO’ MINEO PITTORE SICILIANO POCO NOTO DEL XVIII SECOLO.

di Sergio Alcamo.


Su Nicolò Mineo poco o nulla sappiamo. Nel dizionario del Sarullo è citato come “pittore del XVIII secolo operante a Palermo” e se ne trascrive una liberazione del 30 settembre 1728 per la realizzazione di uno stendardo a due facce per il “Consule di Tunnisi”, raffigurante l’aquila imperiale, opera al momento irreperibile[1].
L’unico dipinto per ora noto di questo artista è la grande pala raffigurante l’Immacolata Concezione (fig. 1), realizzata nel 1716 per l’altare maggiore della chiesa eponima di Salemi e tuttora in situ[2].


Fig. 1 - Nicolò Mineo, Immacolata Concezione, 1716, Salemi, chiesa della Concezione (foto S. Alcamo).

Sebbene l’opera riporti ancora i segni dei danni del terremoto del 1968 si trova in uno stato di conservazione abbastanza buono. Raffigura la Madonna abbigliata come una regina con un vistoso manto azzurro, accolta in cielo da Dio Padre e dallo Spirito Santo sotto forma di colomba bianca, attorniata da angeli e testine di cherubini. Tra gli attributi tradizionali la falce di luna ai piedi, lo specchio retto da uno degli angeli in primo piano e il serpente scacciato.
Modello di partenza per questa composizione è la tela del medesimo soggetto di Pietro Berrettini detto Pietro da Cortona (1596-1669) realizzata nel 1662 per un altare della chiesa di S. Filippo Neri a Perugia (fig. 2) e tradotta più volte in incisione, da Louis Gomier a François Spierre (fig. 3), entro la prima metà del ‘700[3].
  
Fig. 2 - Pietro da Cortona, Immacolata, 1662, olio su tela, Perugia, chiesa di S. Filippo Neri (da http://www.ediart.it/images/Archivio%20fotografico/index.html/Sec.%20XVII/dipint%20mob%20XVII/pag%20C2/pag%20C2.htm).

  
Fig. 3 - François Spierre (da Pietro da Cortona), Immacolata, incisione, prima metà del XVIII secolo ( da http://www.internetculturale.it/jmms/iccuviewer/iccu.jsp?id=oai%3Awww.internetculturale.sbn.it%2FTeca%3A20%3ANT0000%3ARML0345670&mode=all&teca=MagTeca+-+ICCU).

Il Mineo recupera interamente la figura di Dio padre e il grande globo terrestre ai piedi della Vergine al quale è attorcigliato il demonio, trasformando però quest’ultimo nel più tradizionale serpente. Poi sposta al centro Maria, alla quale fa volgere il capo verso il cielo, stendere il braccio destro e piegare le ginocchia sulla falce di luna; arricchisce infine il tutto con grandi angeli e lo Spirito Santo in forma di candida colomba.
Lo stile del Mineo appare caratterizzato da pieghe frastagliate, taglienti e spigolose. La matrice culturale è chiaramente debitrice della scuola pittorica settecentesca trapanese, da Domenico La Bruna a Giuseppe Felici e soprattutto a Giuseppe La Francesca: cieli dorati, incarnati rosati e madreperlacei, colori delicati e fisionomie dolci[4].
Una desunzione dalla tela salemitana è ravvisabile in un dipinto della serie con le Storie della Vergine realizzata verso il 1725 da Giuseppe Felici per il santuario dell’Annunziata di Trapani (fig. 4).



Fig. 4 - Giuseppe Felici, Immacolata, 1725 ca., olio su tela, Trapani, santuario dell’Annunziata (da http://www.innerwheel.it/club/iwc181/services/?id=5792&page=1).

Non sappiamo quale grado di parentela sia intercorsa con tal Michele Mineo, citato sempre dal Sarullo[5]. Quest’ultimo viene elencato come “pittore trapanese o più probabilmente marsalese”. Dalle due opere firmate e datate per la chiesa di S. Francesco d’Assisi di Marsala, rispettivamente del 1844 e 1845, deduciamo che possa essere un discendente, forse un nipote o un pronipote.
Tornando a Nicolò Mineo, poiché questo nome si ritrova inciso sul celebre paliotto in argento del Museo Pepoli di Trapani (fig. 5), realizzato tra 1739 e il 1743 ca., in passato si è ritenuto che fosse la firma dello scultore[6].


Fig. 5 - Argentieri trapanesi, sec. XVIII, Paliotto d’altare, argento sbalzato, cesellato, fuso su anima lignea, Trapani, Museo Regionale “A. Pepoli” (da http://www.regione.sicilia.it/bbccaa/museopepoli/Sezioni.html).

Lina Novara ha ipotizzato che, non comparendo il nome del Mineo tra quello degli argentieri noti, potrebbe essere quello di uno dei committenti o di colui che ha curato le scritte sul citato paliotto[7].
Secondo Vincenzo Scuderi[8] il disegno per il manufatto sarebbe stato fornito del pittore-architetto trapanese Giovanni Biagio Amico, autore di disegni, prospettive e affreschi, oggi quasi tutti perduti[9].
Forse il nome del finora poco noto pittore Nicolò Mineo rivela invece la vera paternità dell’artefice del disegno del paliotto trapanese.
È solo un’ipotesi in attesa di nuove e dirimenti certezze documentali.





[1] L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani. II. Pittura, a cura di A.M. Spadaro, Palermo 1993, p, 356, ad vocem.; cfr. C. Cataldo, Guida storico-artistica di Alcamo, Calatafimi, Castellammare del Golfo, Salemi, Vita, Alcamo 1982, p. 161.
[2] L’opera è riprodotta in F. Venezia, M. Jodice, Salemi e il suo territorio, Milano 1984, p. 164. Cfr. http://matricesalemi.blogspot.it/p/beni-ecclesiastici.html a cura di Alessandro Palermo.

[3] http://www.internetculturale.it/opencms/ricercaMag.jsp?q=&searchType=avanzato&channel__subject=%22Pietro+%3A+da+Cortona+-+Immacolata+Concezione%22&opCha__subject=AND
[4] Sui pittori trapanesi citati (La Bruna, Felici, La Francesca) si veda alle rispettive voci Sarullo 1993, op. cit., rispettivamente pp. 271-273; pp. 197-198; pp. 277-278 (con bibliografia precdente).
[5] Ibidem, ad vocem, p. 355-356.
[6] F. De Felice, Arte del trapanese: pittura ed arti minori, Industrie riunite editoriali siciliane 1936, p. 41, “Anche il Pallio d’argento del Real Museo Pepoli [….] Nicolò Mineo trapanese (sec. XVIII) lo cesellò per la chiesa di S. Domenico”.
[7] M. C. Di Natale, Arti decorative nel Museo Pepoli di Trapani, in Museo Pepoli, Palermo 1991, pp. 95-97.
[8] V, Scuderi, Il Museo Nazionale Pepoli di Trapani, Roma 1965.  Cfr. Di Natale 1991, op. cit., p. 97.
[9] Su Giovan Biagio Amico si veda A. Mazzamuto, Giovanni Biagio Amico architetto e trattatista del Settecento, Palermo 2003, con bibliografia. 






mercoledì 9 aprile 2014

OLIVIO SOZZI A CASTELVETRANO: NUOVE IPOTESI ATTRIBUTIVE SULLA MADONNA DEGLI AGONIZZANTI DI VITO D’ANNA.


di Sergio Alcamo

Una particolare iconografia della Madonna degli Agonizzanti – o, come in alcuni casi viene citata, del Moribondo o della Buona morte[1] - sembra sia legata in modo indissolubile al nome del pittore palermitano Vito D’Anna (1718-1769), che avrebbe affrontato questo soggetto più volte nel corso della sua carriera artistica, in particolar modo nella sua fase iniziale[2].
Lo storico Leonardo Vigo, infatti, ci tramanda il ricordo di un quadro realizzato dal giovane pittore per la chiesa degli Agonizzanti ad Acireale quando si trovava ancora alle dipendenze del Vasta e dunque entro il 1744.
Nel descrivere quest’opera, nota appunto come la Buona morte, il biografo sottolineava «è in questa raffigurato un moribondo, cui la religione appresta gli estremi aiuti; e l’immagine della morte, l’agitazione dell’infermo, con il dolore della famiglia derelitta, vi sono descritti con qualche energia, e svelano come l’autore faceasi mano mano dotto nella difficilissima arte dell’espressione»[3]
Per Citti Siracusano, che citava la medesima versione come il Moribondo, la tela sarebbe stata dipinta dall’artista nel 1743, ma senza mostrare alcun documento a riprova di questa specifica datazione[4].
L’opera attualmente è irreperibile e non sappiamo cosa rappresentasse esattamente.
Recentemente è stato sostenuto che da essa avrebbe tratto spunto lo scultore Filippo Quattrocchi (1738-1813), già collaboratore del D’Anna, per realizzare il gruppo ligneo che adorna l’altare maggiore della chiesa di S. Cataldo a Gangi[5] (fig. 1).


fig. 1 – Filippo Quattrocchi, Madonna degli Agonizzanti, Ganci, chiesa di S. Cataldo (da http://it.wikipedia.org/wiki/Filippo_Quattrocchi).


L'opera in questione mostra la Madonna col bambino Gesù in braccio assisa su una nuvola retta da cherubini che assiste un agonizzante disteso su un letto e attorniato da un religioso che lo conforta e da un angelo che gli indica la sacra visione. Non sembra però corrispondere puntualmente alla descrizione del Vigo.
Due fogli conservati nel gabinetto dei disegni della Galleria Regionale della Sicilia Palazzo Abatellis, e facenti entrambi parte della collezione Sgadari di Lo Monaco, hanno fatto supporre alla Siracusano che fossero preparatori per la dispersa tela di Acireale[6].
È stata Mariny Guttilla[7] per prima a riconoscere che in realtà uno dei due disegni (fig. 2) è relativo ad un dipinto attualmente presso il palazzo arcivescovile di Monreale e proveniente dalla chiesa di Santa Maria degli Agonizzanti di quella stessa città (fig. 3).


fig. 2 – Vito D’Anna, Madonna degli Agonizzanti o Moribondo, disegno, Palermo, Galleria Regionale della Sicilia (da La Monica 2012).


fig. 3 – Vito D’Anna (bottega ?), Madonna degli Agonizzanti, Monreale (da Cuccia 2006).

Se la Guttilla attribuisce al D’Anna l’esecuzione del disegno collocandolo nella fase tarda dell’attività artistica del maestro, attorno agli anni ’60 del Settecento, assegna invece, in accordo con Giulia Davì[8], l’esecuzione del quadro ad uno stretto collaboratore del pittore, forse uno dei fratelli Manno[9].
In ogni caso l’iconografia di questo dipinto sembra discostarsi notevolmente sia dalla descrizione del Vigo sia da quella del citato gruppo scultoreo del Quattrocchi.
Il secondo foglio (fig. 4) recante un’attribuzione ad uno “scolaro di Vito D’Anna”[10], è stato invece messo in relazione per la prima volta da Antonio Cuccia[11] con un dipinto raffigurante la Madonna degli Agonizzanti (fig. 5) conservato a Ventimiglia di Sicilia, che lo studioso attribuisce senza appigli documentari ma solo su base stilistica e sulla scorta proprio di questo disegno a Vito D’Anna.


Fig. 4  - Olivio Sozzi (qui. attr.), Madonna degli Agonizzanti, disegno, (da Lo Monaco 1940).

In questo modo egli ritiene di aver chiuso il “caso” Vito D’Anna-Madonna degli Agonizzanti, quantomeno nella parte relativa ai due fogli di Palazzo Abatellis. Il dipinto di Acirelae rimane al momento sempre latitante. 
    


Fig. 5 – Olivio Sozzi (qui. attr.), Madonna degli Agonizzanti, tela, Ventimiglia di Sicilia, chiesa Madre (da Cuccia 2006).

Il quadro ventimigliano ed il relativo disegno, effettivamente, sembrano corrispondere maggiormente alla scultura di Gangi ma meno alla descrizione del Vigo. Si può notare infatti la presenza del frate in basso a conforto dell’agonizzante e dell’arcangelo Gabriele che però non indica palesemente la Madonna.
Abbastanza concorde con l’attribuzione a Vito D’Anna di questa tela è la studiosa Ilaria Guccione, che tuttavia la ritiene opera a due mani con interventi di Olivio Sozzi nel registro superiore[12].
Recentemente ho avuto l’opportunità di occuparmi della chiesa degli Agonizzanti in Castelvetrano, e in questa occasione ho avuto modo di visionare alcune foto scattate negli anni ’80 del Novecento contenute in un album fotografico relativo ai beni artistici di questa cittadina, curato dallo storico locale dott. Aurelio Giardina[13].
Con stupore mi sono accorto della quasi identicità di soggetto tra la citata tela di Ventimiglia e il quadro che stava sull'altare maggiore di questa chiesa castelvetranese (fig. 6) e purtroppo rubato nel 1979.


Fig. 6 – Olivio Sozzi (qui attr.) - Maria S.S. degli Agonizzanti, Castelvetrano, Chiesa degli Agonizzanti, foto di Aurelio Giardina, anni ’80, con la tela rubata nel 1979 ancora in situ.


Dalle brevi note storico-artistiche relative all’edificio[14] si apprende che questo dipinto è stato trafugato in quell’anno assieme ad altri quattro di cui, tranne per uno, ignoriamo il soggetto.
Infatti da una descrizione manoscritta della città di Castelvetrano ad opera di Giovan Battista Noto, Platea della Palmosa Città di Castelvetrano, datata 1732, siamo informati che sul’altare maggiore di questa chiesa vi era Un quadro grande di bellissima pittura coll’Immagine della Madre Santissima che assiste al conforto d’un agonizante”, mentre nell’altare di destra vi era un “…quadro della Madre di Dio delli sette dolori”, probabilmente una Addolorata[15].
All’epoca di questa descrizione dunque in questa chiesa esistevano solo due dipinti. L’autore non cita il nome del pittore ma dalla descrizione è chiaro che il soggetto del quadro posto sull’altare maggiore è identico a quello della foto d’epoca.
D’altro canto è sempre il Noto a riferirci che anticamente sul medesimo altare vi era un altro dipinto raffigurante Santi ed anime purganti: “… volse trasferire il quadro, ch’era in detta chiesa antica del’agonizanti ov’erano depinti alcuni Santi coll’anime purganti imploranti il lor suffragio lo trasferì insieme colla statua di S. Sebastiano ch’era titolo della chiesa dell’Agonizanti[16], e che Il nuovo quadro con la Madonna degli Agonizzanti veniva così a sostituire il precedente, che veniva posto sull’altare principale della chiesa del Purgatorio: “In tal capellone, e sovra detto Altare vi è un quadro già cennato con pittura rappresentante molti Santi, sotto i quali compariscono anime Sante imploranti il lor suffragio[17].
Grazie alla ricordata fotografia in bianco e nero, unico documento visivo superstite, possiamo collegare la tela rubata al disegno della Galleria Regionale della Sicilia citato dal Cuccia, che proprio del quadro castelvetranese riprende esattamente ogni minimo dettaglio.
Anzi, rispetto all’altra tela di Ventimiglia le corrispondenze sono più puntuali: il religioso in primo piano a sinistra (forse un benedettino[18]) in questo quadro ha i capelli e non ha la barba e regge un libro, mentre in quello di Ventimiglia ha la barba e la tonsura e regge in mano un libro ed un aspersorio (forse un cappuccino); l’angelo alla sinistra del moribondo ha le ali a riposo rispetto a quelle dell’altro angelo nell’altro dipinto; infine, il bambino Gesù ha il braccio desto abbassato rispetto alla posizione che tiene nell’altra tela dove il braccio è rivolto verso l’alto.
La testimonianza documentaria del manoscritto del Noto del 1732 si configura dunque come termine ante quem per il dipinto di Castelvetrano e la tela a mio avviso va assegnata non a Vito D’Anna bensì a Olivio Sozzi.
A quella data infatti il D’Anna avrebbe avuto circa quattordici anni, un po’ pochi per una committenza del genere e non era ancora entrato in contatto col Sozzi.
Di conseguenza ritengo che anche il disegno della Galleria Regionale della Sicilia debba essere restituito a quest’ultimo.
La qualità elevata di questo foglio “a penna, inchiostro bruno, acquerellato in grigio e rialzato a biacca e gesso rosa”, dalla “maggiore sicurezza di tratto e più raffinate qualità pittoriche” che lo aveva fatto assegnare da Maria Genova a Vito D’Anna[19], in accordo con la Di Equila che lo aveva pubblicato nel 1940, deve essere restituito a mio avviso al pittore catanese[20].
La presenza della quadrettatura lo definisce infine come disegno preparatorio, molto probabilmente proprio per questo dipinto che, in ogni caso è, a tutti gli effetti, una replica della tela ventimigliana. 
Anche il quadro di Castelvetrano si discosta dalla descrizione del Vigo della tela attualmente irreperibile di Vito D’Anna, il che mi porta ad ipotizzare che in realtà l’opera dipinta da quest’ultimo abbia un iconografia differente da quella che io ritengo più plausibilmente un’idea del suocero Olivio Sozzi, e che probabilmente è esemplata su altri modelli. Il “caso” quindi è ancora aperto.
Per ritornare sulla tela di Ventimiglia di Sicilia e sulla sua somiglianza con quella di Castelvetrano, vorrei evidenziare che questo paese della provincia di Palermo trae il suo nome da Beatrice Ventimiglia che lo fondò nel 1625. Costei era figlia di Giovanni III Ventimiglia marchese di Geraci e Donna Anna Aragona Tagliavia, a sua volta la figlia di Don Carlo d’Aragona, primo Principe di Castelvetrano (1549-1592)[21].
Il legame di parentela strettissimo con i discendenti di Beatrice spiega il perché delle due tele simili in due centri distanti geograficamente: il Sozzi l’aveva forse replicata per due esponenti dello stesso ramo dell’illustre famiglia ed entrambe si conservano in due chiese-oratori settecenteschi legati alla Madonna degli Agonizzanti. Ritengo pertanto di concedere ad Olivio Sozzi anche la paternità della tela di Ventimiglia.
La chiesa degli Agonizzanti di Castelvetrano è un edificio dalle dimensioni modeste. Oggi è chiuso al culto e si trova in precarie condizioni, sia per la forte umidità, che ha compromesso parte degli affreschi realizzati sulle pareti, in particolare quelli vicino all’abside e nella parte dell’altare di sinistra - sia per problemi di staticità delle parti in stucco che rivestono le pareti e le volte. È usato momentaneamente come deposito di banchi e arredi liturgici, e presenta gli altari disadorni.
Come ho detto poc’anzi, originariamente era dedicata a S. Sebastiano fino al 1644, quando cambiò nome[22]. Attestata già dal 1516, forse era stata voluta da don Diego d’Aragona. Fu restaurata ed ornata nella seconda metà del Seicento, il che spiega certe soluzioni ancora attardate rispetto alla decorazione pittorica tardo-settecentesca.
Era patronato di questa illustre famiglia che con i loro discendenti tanto lustro hanno dato all’isola e in altre parti d’Italia.
Fu probabilmente Don Diego Aragona Pignatelli Cortes Pimentel e Mendoza, principe di Castelvetrano dal 1724 al 1750, il committente di questa tela, lo stesso personaggio che si era fatto ritrarre da Francesco Solimena (fig. 7)[23].
Fig. 7 - Francesco Solimena, Ritratto di Don Diego d’Aragona Pignatelli, olio su tela, asta Sotheby’s Milano 2009 (immagine tratta  da http://www.luxgallery.it/foto/aste-da-luca-giordano-a-gio-ponti/sothebyssolimena.php).

L’apice di questa dinastia era stato raggiunto nel ‘500 col citato Don Carlo primo Principe di Castelvetrano,  il Magnus Siculus ricordato dal Manzoni quale governatore dello Stato di Milano nel 1582.
Gli Aragona-Tagliavia possedevano già dal ‘500 un palazzo a Palermo che ne tempo si è ingrandito finendo per inglobarne un’altro. Poco nulla sappiamo dell’interno di questa enorme dimora nel Settecento che probabilmente, come altre in quell’epoca, avrà avuto ambienti sontuosi e ricchi di decorazioni di vario genere realizzati da celebri artisti[24].
Verso gli ani 30’ del Settecento il pittore Olivio Sozzi era senza dubbio uno dei nomi di maggior spicco sulla piazza palermitana. Non sappiamo al momento se proprio al Sozzi Don Diego si sia rivolto per decorare alcuni ambienti del proprio palazzo ma possiamo ipotizzare con molta probabilità che al medesimo pittore dovette chiedere di dipingere un quadro per la chiesa del Purgatorio a Castelvetrano, altro edificio ecclesiastico del quale la sua famiglia deteneva il patronato[25].


Fig. 8 - Olivio Sozzi, La Trinità, la Madonna e le anime del Purgatorio, olio su tela, Castelvetrano, chiesa Madre, già Castelvetrano, chiesa del Purgatorio (foto S. Alcamo).


Infatti un tal “Vincenzo” Sozzi - evidentemente si tratta di una svista contenuta nella trascrizione del documento - nel 1746 fu pagato per aver dipinto la pala d’altare per la chiesa del Purgatorio (fig. 8)[26].
Questa chiesa “era stata voluta intorno al 1642 dal Principe Don Diego. L’interno è a tre navate, divise da colonne, riccamente adornato con stucchi e affreschi; il cappellone fu completamente rifatto nel 1746 ad opera dei fratelli Nicolò e Gaspare Curti”[27].
Su Olivio Sozzi manca a tutt’oggi una monografia esaustiva. Dopo il successo degli anni ’30 e ‘40 del Settecento, gli anni ’50 sono caratterizzati dall’ascesa di Vito D’Anna e dal lento e inesorabile declino della propria carriera ripiegata sulle orme del genero. Questa situazione lo ha lentamente declassato e ha fatto perdere interesse verso la sua produzione[28].
Molti momenti della sua attività restano ignoti, come per il D’Anna, e molti dubbi permangono su diversi aspetti della sua attività artistica giovanile.
Forse qualche elemento in più per arricchire le nostre conoscenze sull’artista potrebbe venire proprio dalla apparentemente decentrata città di Castelvetrano, oggi grosso centro agricolo ma in realtà patria di una delle più illustri famigli aristocratiche siciliane. Regnanti illuminati furono committenti d’arte per oltre tre secoli.
Nel 1700, trasferitisi a Palermo e Napoli i diversi Principi, divenuti per discendenza Aragona Pignatelli, diedero una svolta artistica in chiave settecentesca alla propria città d’origine, ancora adagiata sui gloriosi fasti cinquecenteschi, avviando diversi cantieri e cicli decorativi ad affresco.
Poco o nulla al momento si sa di questo fervore artistico settecentesco ed è imperativo che gli studi futuri dovranno indagare meglio questo aspetto che coinvolge non solo la città di Castelvetrano ma soprattutto la capitale del Regno di Sicilia, dove la committenza Pignatelli in questo secolo è ancora tutta da approfondire.  
È dunque probabile che il pittore avesse lavorato per Don Diego, successore di Don Carlo, già nei primi anni ’30 del Settecento. La tela di Castelvetrano, a giudicare dall’immagine fotografica, presenta, infatti, tutte le caratteristiche della maniera ancora conchiana del Sozzi.
L’intervento di quest’ultimo forse è da estendere anche alla decorazione pittorica della chiesa del Purgatorio per la quale, come ho detto precedentemente, aveva dipinto nel 1746 la tela per l’altare maggiore.
Avendo avuto l’occasione di vedere l’edificio, oggi in un pessimo stato di conservazione, ho notato che doveva presentare una decorazione molto estesa che si sviluppava nelle cappelle laterali con affreschi di modeste dimensioni riproducenti diverse figure di santi, purtroppo oggi molto rovinati e in molti casi illeggibili, quando non addirittura ridipinti in epoche più recenti.
Le figure ancora superstiti (figg. 9-10) ricordano le tipologie del Sozzi e seppur in assenza di documenti possiamo ipotizzare un cantiere decorativo realizzato dalla sua bottega.
È plausibile infatti che l’intervento del maestro, probabilmente successivo all’invio della citata tela, non sia stato diretto e che le opere siano state realizzate da parte della sua bottega sui cartoni preparati da quest’ultimo[29].


    
Figg. 9-10 - Olivio Sozzi (bottega?), affreschi, 1746-47 ca., Castelvetrano, chiesa del Purgatorio (foto S. Alcamo).

È anche ipotizzabile che all’impresa abbiano partecipato diversi aiuti e tra questi probabilmente il figlio Francesco, la cui prima attività, legata senza dubbio al padre, ci appare ancora del tutto sconosciuta[30]. Ed è anche probabile che tra gli aiuti ci fosse proprio il giovane Vito D’Anna che a quell’epoca era già genero del Sozzi[31] ed aveva affrescato già palazzo Pietraperzia, ossia Branciforti, come sostiene Sgadari di Lo Monaco[32], affreschi con i quali, dopo il ritorno a Palermo dal lungo periodo di formazione acese alla scuola del Vasta, si era messo in luce nell’ambiente palermitano.
Don Salvatore Branciforti, principe di Butera e di Pietraperzia aveva sposato  Maria Anna Pignatelli Tagliavia Aragona Cortes, discendente dai principi di Castelvetrano[33].
L’intervento decorativo del D’Anna per il Branciforti potrebbe essere legato in qualche modo a questa città ed ai suoi Signori.
In ogni caso la datazione più plausibile per gli affreschi della chiesa del Purgatorio dovrebbe cadere attorno agli anni 1746-47.
Se infatti i decoratori Curti hanno preparato le cornici in stucco nel ’46[34] è probabile che la decorazione pittorica sia stata immediatamente successiva.
Mi auguro che nuove e più approfondite ricerche d’archivio possano gettare luce sugli Aragona Pignatelli Principi di Castelvatrano, figure poco note di committenti, specialmente per il XVIII secolo, e su tali opere quasi del tutto inedite.





[1] Su questa iconografia vedi: V. Abbate, scheda II,7., in Le confraternite dell’arcidiocesi di Palermo, Storia e Arte, Palermo 1993, a cura di M. C. Di Natale, p. 148-149. Cfr. A. Cuccia, Un inedito dipinto di Vito D’Anna a Ventimiglia di Sicilia, in “Kalòs”, 2006, anno XVIII, n. 3, lug-ago-set, pp. 44-45.
[2] Su Vito D’Anna si vedano: M. G. Paolini, D’Anna Vito, ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, con bibliografia fino al 1985; C. Siracusano, La pittura del Settecento in Sicilia, Roma 1986, pp. 270-281; I. Guccione, Vito D'Anna (1718-1769): identità di un artista, Università degli studi di Palermo, Facoltà di lettere e filosofia, Dottorato di ricerca in storia dell'arte medievale, moderna e contemporanea in Sicilia, 18. Ciclo, tutor Diana Malignaggi; coordinatore Maria Concetta Di Natale, Anno accademico 2006/2007, con bibliografia. Da ultimo: M. La Monica, Vito D’Anna pittore rococò tra sacro e profano, Palermo 2012.
[3] L. Vigo, Memorie di P. Paolo Vasta, pittore di Acireale, Palermo 1826, p. 61. Cfr. M. Guttilla, Vito D’Anna esordi e presentimenti, Palermo 2005, p. 5.
[4] C. Siracusano, La pittura del Settecento in Sicilia, Roma 1986, p. 273, nota 1.
[5] Filippo Quattrocchi, Gangitanus sculptor: il senso Barocco del movimento, a cura di Salvatore Farinella, Palermo 2004. Su Filippo Quattrocchi vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Filippo_Quattrocchi
[6] Siracusano 1986, op. cit.. Su i disegni vedi P. Sgadari di Lo Monaco, Pittori e scultori siciliani dal Seicento al primo Ottocento, Palermo 1940, tavv. XXXVIII e XL.
[7] Il disegno relativo al dipinto di Monreale è stato pubblicato in Sgadari di Lo Monaco 1940, op. cit., tav. XXXVII; M. Guttilla, Vito D’Anna esordi e presentimenti, Palermo 2005, pp. 5-6, fig. 1. Cfr. M. La Monica, Vito D’Anna pittore rococò tra sacro e profano, Palermo 2012, p. 34, fig. 2.
[8] G. Davì, scheda I, 19 in Gloria Patri. L’arte come linguaggio del sacro, a cura di G. Mendola, Palermo 2001. 
[9] Il dipinto è stato pubblicato in Guttilla, Vito D’Anna 2005, op. cit., pp. 5-6, fig. 2. Eadem, Mirabile artificio. Percorsi d’arte figurativa dal XV al XIX secolo nel territorio dell’Alto Belice Corleonese, scheda I.18, Palermo 2005, p. 126. Cfr. Cuccia 2006, op. cit., p. 45, fig. 2.
[10] Sul disegno, oggi alla Galleria Regionale della Sicilia e proveniente dalla collezione di Agostino Gallo, vedi: G. Di Equila, Vito D’Anna (1710-1769). La vita e l’arte, Firenze 1940, p. 18; Sgadari di Lo Monaco, op. cit., tav. XL; Siracusano 1986, p. 274, Tav. L, fig. 2; M. Genova, scheda presso Archivio fotografico del Gabinetto disegni e stampe della Galleria Regionale della Sicilia, 22 nov. 1989; Guttilla, Vito D’Anna… 2005, pp. 13-15; cfr. La Monica 2012, p. 6.
[11] Cuccia 2006, op. cit., pp. 44-45. La tela si trova nella quinta cappella della navata destra della chiesa Madre. Un altro dipinto abbastanza simile che si trova sempre a Ventimiglia nella confraternita di Maria S.S. degli Agonizzanti è stato ricondotto all’ambito della bottega del Sozzi da I. Bruno, scheda II, 21, in Le confraternite….1993, op., cit., p. 158-159.
[12] Guccione 2006/2007, op. cit., p. 116.La studiosa cita erroneamente l’articolo di Antonio Cuccia su Kalòs come di Bonaccorsi.
[13] Castelvetrano Immagini, a cura di A. Giardina, s.d. ma 1981, 18 voll, Presso Biblioteca Comunale “L. Centonze” di Castelvetrano.
[14] Ibidem, vol V..
[15] Giovan Battista Noto, Platea della Palmosa Città di Castelvetrano, ms., 1732, presso Biblioteca Comunale “L. Centonze” di Castelvetrano, c. 236. Il Noto era Canonico e tesoriere della collegiata di S. Pietro e segreto (fidato) di Sua Eccellenza il Principe di Castelvetrano. La trascrizione dell’intero manoscritto è contenuta in R. Cancila, Gli occhi del principe. Castelvetrano: uno stato feudale nella Sicilia moderna, Roma 2007.
[16] Noto 1732, op. cit.
[17] ibidem. Cfr. Giardina 1981, cit..
[18] L’iconografia dell’intera decorazione ad affresco dell’edificio, soprattutto quella della volta, lascia intendere che il programma sia stato dettato da un qualche esponente dell’ordine benedettino.
[19] Maria Genova 1989, scheda, cit..
[20] Di Equila 1940, op. cit., p. 18. Sull’attività grafica di Olivio Sozzi vedi: M. Genova,  I disegni di Olivio e Francesco Sozzi presso la Galleria regionale di Palermo, in Le arti in Sicilia nel Settecento. Studi in memoria di Maria Accascina, Palermo 1985, pp. 427-441.
[21] Su Carlo d’Aragona vedi: A. Giardina, V. Napoli, Carlo d’Aragona e le “travi” dipinte della Chiesa Madre. Araldica, storia e arte ai Castelvetrano tra XV e XVII secolo, Castelvetrano 2002.
[22] Noto 1732, op. cit., cfr. nota 6. «Il successivo titolo è dovuto al fatto che in questa chiesa venivano confortati ad opera della compagnia dei Bianchi i rei condannati a morte», Castelvetrano Selinunte. Un viaggio che chiede ritorno..., a cura di F. S. Calcara, N. Centonze, Campobello di Mazara 2010, p. 16.
[23] La tela è passata recentemente sul mercato antiquario. «MI0305», Old Master Paintings, 19th C Paintings, Furniture and Works of Art, Sotheby’s Milano, Tuesday, December 15, 2009. Lot 29, ” Ritratto di Diego d’Aragona Pignatelli”, olio su tela. il bozzetto relativo si conserva al Metropolitan Museum di New York. Vedi: sito web della Fototeca Fondazione Zeri, Bologna.
[24] Giardina, Napoli 2002, op. cit., pp. 30-31; 125.
[25] Noto 1732, op. cit..
[26]13 luglio 1746 onze 15 e tarì 9 pagati a Vincenzo Sozzi, pittore di Palermo, per fattura del quadro grande del Purgatorio sopra l’altare maggiore, inclusi tarì 5 per prezzo di una cassetta in cui fu portato detto quadro e tarì 4 per la portatura da Palermo”, D. Malignaggi, in X Mostra di opere d'arte restaurate, a cura di Vincenzo Abbate, nota introduttiva di Vincenzo Scuderi, Palermo 1977, pp. Tav. XCI, pp. 125-127, scheda 23 e p. 126, nota 3.  cfr. C. Siracusano 1986, op. cit., pp. 222-223. L’opera si trova attualmente esposta sulla parete destra della chiesa Madre. Cfr. G. Bongiovanni, Pittura a Castelvetrano, in Rivalutare un patrimonio d’arte, itinerari della memoria tra fede e cultura per riacquisire il passato e non perdere il futuro, 26 aprile-26 giugno 1998, Chiesa madre di Castelvetrano, a cura di A. Costanza, Palermo 1998.
[27] Castelvetrano Selinunte. Un viaggio che chiede ritorno..., 2010, op. cit., p. 15.
[28] Su Olivio Sozzi vedi: L. Sarullo, Dizionario degli artisti siciliani. II. Pittura, a cura di A.M. Spadaro, Palermo 1993, ad vocem, con bibliografia.
[29] Dalla nota di pagamento della citata pala sappiamo che questa era stata portata in una cassa da Palermo, Malignaggi 1977, op. cit..
[30] Su Francesco Sozzi vedi: Sarullo 1993, op. cit., ad vocem.
[31] L’atto di matrimonio è stato siglato il 24 febbraio 1745. A. Giuliana Alajmo, Vito d'Anna: Il più grande affreschista Siciliano del '700 e le sconosciute Sue opere in s. Antonio abate in Palermo. 12 documenti inediti, Palermo 1954, p. 8. Cfr. G. Mendola, Sei matrimoni e … un testamento. Inediti per la biografia di alcuni pittori del Settecento palermitano, in Il Settecento ritrovato a Palazzo Santelia, catalogo della mostra a cura di G. Davì et alii, Provincia Regionale di Palermo, Palermo 2008, p. 27.
[32] Su questi affreschi oggi scomparsi vedi: Lo Monaco 1940, op. cit., p. 39.
[33] Giardina, Napoli 2002, op. cit., tavola genealogica fuori testo.
[34] A. G. Marchese, I Ferraro da giuliana, 3. Antonino junior, Palermo 1984, p. 46.